MARO': IL CASO INFINITO, TRA PROVE MANIPOLATE E LUNGHE ATTESE


L'esperto legale racconta gli ultimi sviluppi sulla vicenda

 

Parte Seconda 

 

 

Di Floriana De Donno

Roma, 01 dicembre 2015

 

 

E’ triste pensare che “uno dei nostri”, uno che ha fatto il proprio dovere, uno che ha eseguito gli ordini sino in fondo perché ha giurato fedeltà alla Patria, a quei valori di cui il tricolore italiano è fiero portatore, sia ancora lontano, non per giustizia, da quella Patria che ha servito e continua a servire. L’aggravante è che, in questo caso, “i nostri” sono due.

"Il mio pensiero va anche questa volta alla missione dei fucilieri di marina Girone e Latorre, impegnati anch'essi a difesa della sicurezza delle nostre navi mercantili. A loro rinnovo il mio sostegno e il sostegno del Paese. Sarò davvero lieto quando potrò incontrarli insieme in Italia". Così in data 11 novembre chiosava il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel proprio discorso di ringraziamento ai militari della fregata “Carabiniere”, impiegata nella missione antipirateria nel porto di Mascate in Oman.  Ma se è vero che, come conclude Mattarella, “l'obiettivo della restituzione di questi mari alla legalità e alla libertà di navigazione adesso è più vicino, grazie anche alla vostra opera” , viene naturale chiedersi a quale prezzo e con quali rischi i nostri militari operino per “restituir legalità” in giro per il mondo.

Certo… il pensiero non può che andare a Girone e Latorre, alla legalità loro negata e al dossier indiano che narra (e consta) com’è stato più volte ribadito dai mass media di mezzo mondo, di prove artefatte e manipolate.

Le recenti scoperte sulle prove artefatte pubblicate in tutto il mondo, non stupiscono di certo. Del resto l’andazzo investigativo indiano aveva dato da pensare sin da subito. La sola fase d’inchiesta, la cosiddetta “prima fase”, non soltanto durava più di due anni, ma si radicava esclusivamente innanzi all’autorità giudiziaria indiana. I commenti non sono mancati, le polemiche pure, al tempo del web tutto assume un ritmo incessante e le notizie raggiungono l’opinione pubblica in pochi secondi. Vediamo quel che è emerso e quanto si può sommariamente analizzare anche senza scendere troppo nel dettaglio.

Prima anomalia: nonostante (dopo oltre due anni), l’India non avesse ancora tirato fuori alcun capo d’imputazione, le famiglie dei pescatori morti venivano risarcite ampiamente come se fosse sorto in cappo a queste un diritto di risarcimento da reato, cioè come se i nostri militari fossero stati dichiarati colpevoli di un reato il cui capo di imputazione, di fatto, non era stato neppure formulato!

 

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Seconda anomalia: contestualmente alla cosiddetta “Prima fase” indiana, la Procura della Repubblica di Roma apriva un procedimento penale a carico dei due fucilieri,ascrivendo agli stessi il reato di omicidio volontario, senza uno straccio di prova, probabilmente nel vano, blando, inadeguato tentativo di riportare sotto l’egida della giurisdizione italiana i nostri marò: inutile ricordare che gli sforzi di cooperazione giudiziaria rimanevano completamente inevasi.

Omettendo in questa sede i dettagli della vicenda giudiziaria dello stato di Kerala, (“dettagli” che hanno visto i nostri fucilieri essere oggetto di usi e abusi giudiziari senza che lo Stato citato ne avesse alcuni titolo), finalmente il 18 gennaio 2013 la Corte Suprema Indiana stabiliva che non ricorreva alcuna giurisdizione dello Stato Indiano e dunque dello Stato del Kerala e dei suoi Tribunali, in relazione al luogo nel quale è avvenuto l’incidente della Enrica Lexie.

“Bene!”, gridò l’Italia tutta, “riportiamoli a casa!”

E no! Perché la corte Suprema Indiana richiamava, nella propria sentenza, la competenza di un Tribunale Speciale da costituirsi a tal scopo. Pressate dalla necessità impellente di dover presentare a stretto giro prove a carico di Girone e Latorre, le autorità indiane disponevano che le indagini da presentarsi presso il Tribunale Speciale venissero fatte della NIA (National Investigation Agency).

Terza anomalia: l’India non aveva fatto indagini sino a quel momento?

Risposta: si desume di sì, ma c’è una bella differenza tra svolgere indagini e trovare, a seguito di queste, prove a carico. Come superare dunque l’empasse probatoria e riportare la giurisdizione in India? Coinvolgendo la NIA e richiamando la legge antiterrorismo, così provando a superare il disposto della stessa Corte Suprema Indiana in ordine alla non-giurisdizione dell’India sul caso.

Contro questa strategia del Governo Indiano, l’Italia proponeva ricorso presso la Corte Suprema Indiana la quale, con estrema calma, il 28 marzo 2014 escludeva l’applicazione della legge antiterrorismo al caso dei marò, di fatto rimettendo la questione “nella terra di nessuno”.

Ed eccoci giunti al dunque: finalmente il Governo Italiano il 24 maggio 2014 decideva di avviare la procedura internazionale per definire la questione giuridica “Girone –Latorre”, per il cui approfondimento si rimanda al precedente articolo. Ciò che qui importa, di contro, è analizzare lo scandaloso mendace quadro probatorio messo in piedi dal governo indiano e che emergerà solo all’esito dell’udienza di agosto 2015 presso il Tribunale di Amburgo.

Udienza, questa, assai infuocata e che ha visto contrapporsi all’avvocato nominato dallo Stato italiano per i marò, quello indiano che, “udite! Udite!”, è un avvocato mutuato della nostra amica-alleata Francia. Certamente ci si domanda se il collega francese avesse la possibilità di rifiutare la difesa: assolutamente sì!

Al lettore ogni ulteriore considerazione sul punto, laddove si pensi che appare piuttosto inverosimile che l’avvocato francese, intervenuto per l’India, non si sia accorto di costruire le proprie argomentazioni, tra l’altro, su prove assai dubbie. Il contenuto dell’ordinanza del 24 agosto 2015, che potrete interamente leggere, offre il quadro di una discussione accesa tra i giudici, attestata evidentemente su posizioni contrastanti. Il commento alla citata ordinanza sarà proposto prima dell’udienza del 16 gennaio 2016, affinché si possa meglio comprendere il “cosa” si tratterà in quella sede.Ciò che ora importa rimarcare sono due passaggi in ordine all’attuazione delle misure cautelari.

L’ordinanza richiamata dispone che:

Italia e India devono sospendere ogni procedimento giudiziario in atto e devono astenersi dall’avvio di nuovi procedimenti che possano aggravare o estendere la controversia;

Non può essere disposta la liberazione dei due militari italiani con rientro in Patria degli stessi”, in quanto non è ancora stata stabilita la competenza specifica di uno dei due tribunali (italiano o indiano).

 

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Invitiamo il lettore a una semplice riflessione.

La ragione per cui una misura cautelare viene adottata, sia in fase di indagini che di processo, è quella di evitare che possa essere pregiudicato lo svolgimento dell’attività giudiziaria. La limitazione della libertà personale, quale misura cautelare, si ha se a carico dei soggetti insistono “gravi indizi di colpevolezza” o vi è il rischio che, lasciando liberi i soggetti, le prove possano essere inquinate…in aggiunta la misura cautelare, per sua natura, deve essere limitata nel tempo (4 anni di misura cautelare non sono assolutamente concepibili!). Ebbene, in ordine alla limitazione temporale cui assoggettare una misura cautelare, i giudici di Amburgo si sono espressi nel senso di prolungarla, di fatto, stabilendo che non potesse essere disposta la liberazione dei militari italiani.

Il “perché” è sconcertante ma, tutto sommato, comprensibile: i giudici componenti il collegio hanno evidenziato come “l’assenza di urgenza nella richiesta dello Stato Italiano fosse da ritenere evidente conseguenza della ricorrenza di procedimenti penali a carico dei due militari in India pendenti da circa tre anni senza che l’Italia avesse in alcun modo avviato alcuna forma di tutela per i suoi cittadini in via internazionale”.

Come dar loro torto innanzi a un fatto incontestabile, costituito dall’eccessivo e inconcludente uso della diplomazia italiana per riportare a casa “i nostri” durato ben tre anni?

In ordine all’inquinamento delle prove, invece, dobbiamo parlarne.

Eh si, perché chi ha tutelato i nostri marò dall’inquinamento delle prove operate dal governo indiano e venuto fuori solo nell’agosto 2015? Sul punto silenzio assoluto. I giudici di Amburgo hanno messo a verbale solo le rispettive visioni di condotta manifestate dallo Stato Italiano e da quello Indiano. Più comodo devolvere tutto al collegio giudicante del 16 gennaio 2016, il quale potrà e dovrà esprimersi, necessariamente, anche nel merito. Ma cosa è emerso di così “inquinato” dalle carte depositate dal governo indiano presso la cancelleria del Tribunale di Amburgo?

In estrema sintesi: la scena del crimine è stata manipolata. Due i punti focali.

1. Distanza tra l’Enrica Lexie e il peschereccio. Analizzando le rotte tenute dalle due imbarcazioni, rispettivamente 331 gradi la Lexie e 186 gradi il peschereccio Saint Antony, nonché la velocità, rispettivamente di 14 e 8 nodi, emerge una distanza tra le due imbarcazioni pari a 920 metri. Il dato è oggettivo perché preso dalla strumentazione di bordo e dalla rilevazione automatica che si ottiene con lo Ship Security Alarm System montato sulla Lexie. Si aggiunga che la stessa guardia costiera indiana in un primo momento aveva sostenuto che la Lexie viaggiava su una rotta di 330 gradi circa.

Di contro, le autorità indiane hanno sempre sostenuto che la distanza tra le due imbarcazioni fosse meno di 50 metri, senza fornire alcuna base di calcolo su cui fondare l’assunto della distanza. In ragione della rotta tenuta dalla Lexie e dalla distanza tra le due imbarcazioni, la dinamica balistica è incompatibile con quanto dichiarato dalle autorità indiane: i proiettili avrebbero dovuto colpire il peschereccio da sinistra e non da destra come invece risulta dai fori di entrata.

2. I proiettili e la loro grandezza. A seguito dell’autopsia svolta sui cadaveri dei due pescatori, l’ogiva estratta dal cranio di uno dei due cadaveri è risultata essere lunga 31 mm, lunghezza non compatibile con i colpi calibro “5,56 Nato” in dotazione a Latorre e Girone. Gli stessi, si ricordi, hanno in uso il fucile d’assalto Beretta AR 70/90, il cui calibro di munizioni è lungo appena 23mm. L’impatto tra le ossa e il proiettile di calibro 23mm avrebbe, tra latro, ulteriormente accorciato la lunghezza dello stesso rispetto ai 23mm del proiettile integro non esploso. L'incongruenza tra le dimensioni dei proiettili, segnalata già nel 2013 anche da Staffan De Mistura, in un'audizione presso le Commissioni Esteri e Difesa della Camera e del Senato, è evidentemente rimasta inascoltata sino alla presentazione dei documenti indiani, nel 2015, presso il Tribunale di Amburgo.

A ciò si aggiungono ulteriori anomalie quali la vera e propria trappola tesa ai nostri marò, che furono inviatati da parte del governo indiano a sbarcare, senza che venisse loro indicato il motivo della richiesta, per poi arrestarli una volta toccato suolo indiano con sopravvenuto mandato delle autorità locali. Con riserva di scrivere ancora sul caso, l’amara riflessione rimane: è questo il prezzo che “i nostri”, tutti “i nostri” devono pagare o rischiano di dover pagare per difendere l’altrui legalità?

 

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Floriana De Donno è avvocato specializzato in materia penalistica dal 2005. Completa la sua formazione professionale con master, corsi e la specializzazione in diritto militare penale e amministrativo nel 2008. Ad oggi è autrice di articoli tecnici a tema, e si divide tra i due studi (Roma e Lecce) e la direzione del corso "Diritto Penale Militare" per il Centro Studi De Armas (www.dearmas.eu). Per informazioni: www.avvflorianadedonno.it - avv.florianadedonno@yahoo.it

  

  

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