ROE, RAPPORTI TRA STATI MILITARMENTE COOPERANTI E C.P.M.G.: IL CASO LOZANO E L’UCCISIONE DELL’AGENTE DEL SISMI CALIPARI


Diritto militare, terza e ultima parte.

 

 

Di Floriana De Donno

Roma, del 30 giugno 2015

 

 

 

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Riprendendo la chiosa dell’articolo precedente, in questa terza e ultima parte tratteremo dell’interazione tra ROE, c.p.m.g. e interazione delle giurisdizioni proprie degli stati militarmente cooperanti.

Per meglio comprendere i criteri d’interazione e applicabilità delle norme richiamate, occorre chiarire quali siano i principi costituzionali di base che legittimano l’invio di missioni militari italiane all’estero, tenendo presente, però, che non esiste una normativa interna che legittimi a pieno una partecipazione militare dell’Italia nei teatri operativi.

Partendo dagli articoli 78 ed 87 della Costituzione, indipendentemente se le missioni siano di peace-keeping o missioni di peace-enforcing, entrambe non rientrano novero dei predetti disposti costituzionali, pensati per fattispecie in cui l’uso della forza è definibile come stato di guerra o conflitto armato. In realtà la sostanza non muta assolutamente, ammorbidendosi solo la linguistica.

Accanto a ciò si pone l’art. 11 della Costituzione il quale proibisce l’aggressione militare, in apparente contrasto con dell’ordinamento internazionale, cui pure l’Italia si uniforma, che consente e dunque legittima il ricorso alla forza armata nei casi di legittima difesa individuale e collettiva dei propri confini, di intervento in uno stato terzo con il consenso dello stesso e di uso della forza autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Come risulta evidente, è totalmente assente una disciplina legislativa ad hoc, che governi ad ampio spettro le modalità di svolgimento delle missioni all’estero, e come e quando al personale delle FFAA in missione debba essere applicato il c.p.m.g.

A supplire alla carenza si è richiamata la legge n. 25/ 1997 la quale, all’art.1, co.1 disciplina il procedimento che autorizza e legittima l’invio delle FFAA e che si sostanzia in una deliberazione del Governo successivamente vagliata dal Consiglio Supremo di Difesa, in ultimo approvata dal Parlamento; sebbene la legge non ne faccia menzione, il procedimento viene operato dai tre organi nel rispetto dell’art.11 della Costituzione, operando contemporaneamente ( e paradossalmente) anche in deroga allo stesso.

E’ lampante che, così come strutturata, la normativa interna non sia sufficiente a garantire la legittima partecipazione italiana alle missioni internazionali. Non potendosi ancorare ai parametri di legge interna anche le scriminanti che legittimano l’azione bellica, la liceità della stessa si rinviene nella conformità a una norma di diritto internazionale che la autorizzi.

Le stesse considerazioni valgono per il codice penale militare di guerra sicché, in questo contesto, dinnanzi alla contemporanea esistenza del c.p.m.p. e del c.p.m.g. il secondo dovrebbe trovare applicazione, a rigor di logica, per le operazioni militari armate, in assenza di una legge precipua attuale.

Sulla scia delle considerazioni ora svolte s’inserisce la problematica delle RoE, cioè quelle “direttive che un governo stabilisce per individuare le circostanze e i limiti entro cui le sue forze armate, di mare, terra ed aria inizieranno o continueranno un combattimento con le forze nemiche” e la cui natura e valenza giuridica dipendono dai singoli ordinamenti nazionali.

 

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Considerate generalmente atti di natura amministrativa sono, per loro stessa costituzione, inidonee a derogare la legge dello stato Italiano, in particolar modo la legge penale tant’è che, se si pongono in contrasto con questa, vengono di norma solo valutate quali attenuanti rispetto al calcolo della pena. Le regole d’ingaggio sono emanate dall’autorità nazionale della Forza Armata che prende parte alla missione ovvero dall’organizzazione sotto il cui comando la Forza è posta se si tratta di operazioni multinazionali, dunque Nazioni Unite, la Nato e l’Unione Europea.

Le RoE possono essere “generali”, valide per tutte le operazioni, oppure “particolari”, valide per una data operazione.

Poiché è complesso stabilire regole d’ingaggio che s’incastrino alla perfezione con la normativa di ogni singolo Stato, in caso di operazioni multinazionali, ogni Paese può applicare alle RoE i cosiddetti caveat, cioè delle riserve legislative modellate sulla base del proprio diritto interno. I caveat consentono a qualsiasi nazione di partecipare a un’operazione multinazionale senza che lo stato violi la propria legge interna.

Chiaro è che nessuna regola d’ingaggio o caveat, potrà rendere lecito un comportamento illecito come sparare su un’ambulanza, tuttavia le regole d’ingaggio, possono consentire l’impiego della forza in seno alla legittima difesa dello Stato proprio o terzo, in un’ottica di attacco o difensiva.

La questione del “come” uno stato militarmente cooperante decide di recepire le RoE non è di poco conto, e può creare una certa difficoltà di interazione tra i contingenti appartenenti a nazioni differenti. Si pensi alle divergenze in ordine alla tipologia di ISAF (International Security Assistance Force), sotto l’egida NATO, in Afghanistan, tra gli Stati che auspicano un intervento più incisivo, dunque a concezione “aggressiva” e di attacco come gli Stati Uniti e chi invece predilige un taglio difensiva dell’intervento, come nel caso dell’Italia. Queste differenti visioni politica incidono sulla tipologia di caveat che si applicheranno alle regole d’ingaggio.

Ciò posto, dunque, come si regolano i rapporti giuridici tra i vari stati cooperanti nelle missioni militari, posto che ognuno degli Stati alle generali ROE applica dei propri caveat?

A differenza dei rapporti tra contingenti militari stranieri e autorità locale, (i quali sono generalmente regolati da un Status of Forces Agreement SOFA, cioè da limiti dell’immunità a favore del personale inviato nello Stato terzo rispetto alla giurisdizione civile e penale), niente disciplina i rapporti tra contingenti, inducendo gli stessi a dover ripiegare sull’onnipresente diritto internazionale consuetudinario, dal contenuto spesso indefinito e farraginoso.

Uno dei principi internazionali, dai contorni per così dire meno fatui, è la cosiddetta “Legge della bandiera”, in virtù della quale ogni contingente che prenda parte a una operazione multinazionale risponde secondo le leggi civili e penali vigenti nel proprio Stato.

 

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Ma cosa accade quando ci troviamo davanti a un fatto-reato che crea conflitto di giurisdizione tra più Stati, entrambi interessati a esercitare la propria giurisdizione sul caso? Può lo Stato della bandiera esercitare una giurisdizione esclusiva sul proprio contingente o piuttosto deve derogare ad altra giurisdizione?

Affrontiamo la questione per mezzo di un rapidissimo accenno al caso pratico, il caso “Lozano”. Durante la Missione “Antica Babilonia” veniva assassinato l’agente del Sismi Nicola Calipari e ferito l’autista Mario Luis Lozano ad opera di un soldato USA, all’altezza di un posto di blocco istituito nei pressi all’aeroporto di Bagdad dal quale il funzionare del Sismi avrebbe dovuto imbarcarsi per riportare in Italia Giuliana Sgrena, sequestrata da un gruppo di guerriglieri iracheni.

La terza Corte di Assise di Roma, con sentenza 25 ottobre 2007 gennaio 2008, n. 21, emetteva non luogo a procedere nei confronti dell’imputato (il militare americano) per difetto di giurisdizione del giudice italiano argomentando che “ i militari americani in Iraq fossero soggetti esclusivamente alla loro legge nazionale.”

Pur correttamente operando la Corte di Assise, il difetto di giurisdizione del giudice italiano non veniva fatto discendere dalla norma di diritto consuetudinario quale la “Legge della bandiera”, bensì dal più consolidato principio per cui gli atti compiuti dall’organo nell’esercizio delle funzioni sono imputabili allo Stato di appartenenza, con la conseguenza che l’atto posto in essere dal militare appartiene allo Stato di cui lo stesso, in seno al contingente, fa parte.

In buona sostanza è un principio d’indipendenza statale ed è lo stesso principio che si sarebbe dovuto applicare in relazione alla vicenda dei Marò sicché gli stessi, per le loro (presunte) azioni criminose dovevano essere giudicati in territorio italiano.

Chiarita la questione delle RoE rimane da capire come, in questo ampio ginepraio normativo, si incastrano c.p.m.p e c.pm.g.

Riprendendo quanto trattato soprattutto nel primo artcolo dei tre sull’argomento, procederemo in estrema sintesi solo al fine di giungere, finalmente, a una visione un minimo organica del funzionamento delle leggi per le FFAA all’estero.

Ricordiamo che il Codice Penale Militare di Pace trova applicazione quando l’Italia non è in guerra con alcuno Stato; di contro il Codice Penale Militare di Guerra si applica, come precisa l’art. 3, “dal momento della dichiarazione dello Stato di guerra fino a quello della sua cessazione”.

Ai sensi dell’art. 9 del c.p.m.g, lo stesso avrebbe dovuto trovare applicazione anche ai corpi militari all’estero per operazioni militari, seppur in vigenza dello status di pace. Come ci si ricorderà, detta problematica sorse all’indomani dell’invio da parte dell’Italia, nel 1982, di un corpo di Bersaglieri a Beirut, al fine di garantire l’evacuazione dei combattenti palestinesi congiuntamente ad altri Stati.

In quel frangente le Camere approvarono un ordine del giorno in cui si escludeva l’applicazione del c.p.m.g disponendo l’applicabilità del c.p.m.p. alle missioni militari all’estero, tanto al fine di evitare l’applicazione della pena di morte, poi abolita con la legge n. 589/94, prevista all’interno del c.p.m.g. Successivamente a detta missione, l’applicazione del c.p.m.p è stata sempre stabilita mediante legge, essendo di contro naturale l’applicazione del c.p.m.g. ai sensi e per gli effetti di una lettura letterale, tutto sommato, del predetto articolo 9.

A seguito delle farraginose vicende Jugoslave del 1999, furono varate le leggi n. 6/2002 e n.15/2002 per mezzo delle quali, a parziale modifica del c.p.m.g., venivano posti una serie di criteri applicativi guida del c.p.m,.g. sussumibili nel dictat che, in tempo di pace, il codice penale militare di guerra si applica alle sole operazioni militari armate.

Il quadro può essere così sintetizzato.

- Il c.p.m.g. si è modellato sulle prescrizioni del Diritto Internazionale Umanitario imponendone il rispetto in caso di guerra ovvero di solo conflitto armato internazionale o interno.

- Il c.p.m.g. si applica alle missioni Enduring Freedom, Active Endeavour e ISAF in Afghanistan (2001) e a quella Antica Babilonia in Iraq (2003) che, quandanche già svolte e concluse, rimangono sotto l’egida del c.p.m.g. per quei reati che possono venire a scoprirsi in tempi successivi al fine missione.

- La legge 4 agosto 2006, n. 247 nuovamente riformando, statuisce che a tutte le missioni di corpi militari italiani all’estero fosse applicato il c.p.m.p. Come nella missione in Libano, legge 20 ottobre 2006, n. 270

- Il c.p.m.g. si applica in casi di violazioni del Diritto Internazionale Umanitario, nel titolo “Reati contro le leggi e gli usi di guerra” per come accennato nell’articolo precedente.

Chiaro è che, allo stato, la legge è assolutamente disorganica, non in grado di differenziare e disciplinare, in maniera netta chiara e autonoma il comparto penale del diritto militare, con ciò esponendo il personale delle FFAA, in qualunque missione essi vengano chiamati a partecipare, a una costante incertezza del profilo giuridico loro applicabile, con conseguente menomazione della loro sicurezza e incolumità.

 

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Floriana De Donno è avvocato specializzato in materia penalistica dal 2005. Completa la sua formazione professionale con master, corsi e la specializzazione in diritto militare penale e amministrativo nel 2008. Ad oggi è autrice di articoli tecnici a tema, e si divide tra i due studi (Roma e Lecce) e l'insegnamento. Per informazioni: www.avvflorianadedonno.it - avv.florianadedonno@yahoo.it

 

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